Stefano Tuccio di Monforte San Giorgio: un grande gesuita delle prime generazioni
La storia della Chiesa, da sempre, si muove in una sorta di grembo infinito pronto a partorire il mistero e, a propria volta, si fa grembo del mondo. Là dove è Chiesa, e di essa si prova a leggere il linguaggio nel tempo, si scorgono fatti, vicende, accadimenti grandi e ordinari, limpidi e contraddittori. Si delinea, insomma, il volto quotidiano dell'uomo, quel volto che è storia anche della Chiesa, lo scorrere dei «fatti» di Dio che l'uomo porta nella propria dimensione, nel tempo e sulla terra in cui vive. Così, se poeti e artisti e scienziati scrivono col proprio nome epoche della storia e le trascendono, divenendo segno universale del genio umano ma pur sempre modo dell’«hic et nunc» che ne ha caratterizzato la vita e le opere, così anche nella storia della Chiesa santi e uomini di cultura hanno segnato col proprio nome, trascendendoli, il tempo e la terra. In questo modo, un genio come Paolo, l'Apostolo universale per eccellenza, può dir di sé: «Io sono un giudeo; nato aTarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città (Gerusalemme), formato alla scuola di Gamaliele», e nella piccola Assisi di Francesco persino le pietre parlano della geniale follia di quel ricco borghese fattosi povero che, nudo d'ogni cosa, avrebbe arricchito il mondo della più radicale e sconvolgente povertà vissuta in nome di Cristo.
Tutto questo per dire che è vanto di una terra fregiarsi del genio religioso di chi l'ha attraversata, e ciò vale sempre, anche quando non si condivida la fase e il modello di vita. Nessuno potrà mai arrogarsi il diritto di giudicare «correttivamente» l'originale appartenenza a determinati luoghi e genti di giganti dell'esperienza religiosa, si chiamino Buddha o Milarepa, Benedetto o al-Hallaj. Anzi, è proprio tale appartenenza che deve contribuire a far riflettere e muovere non solo al rispetto ma all'ascolto attento di quanto hanno fatto e trasmesso .
In questa luce acquista particolare valore e significato per la terra e la cultura messinese la riproposizione nostra di un nome «nostro» nella storia della Chiesa, quello del grande gesuita delle prime generazioni della Compagnia Stefano Tuccio, nato a Monforte S. Giorgio nel 1540 e spentosi a.Roma nel 1597. Il merito dell'operazione va a Giuseppe Giorgianni, ordinario di Filosofia e Storia al liceo classico «Maurolico» di Messina, che ha recentemente curato, sotto il patrocinio dell'assessore alla Pubblica istruzione della Provincia regionale di Messina, la pubblicazione di un'opera inedita dei Tuccio: si tratta della Disputa de praedestinatione, trattato teologico,il cui manoscritto, contrassegnato dalla sigla D. 449 Inf. E costituito da 74 fogli, è custodito nella biblioteca Ambrosiana di Milano.
L'acuto e accurato lavoro di ricostruzione filologica e critica del testo è frutto dell'impegno generoso con cui Giorgianni si e prodigato per anni nell'intento di riportare in luce un concittadino — Giorgianni è originario di Monforte come il Tuccio — che nel passato ha occupato un ruolo di primo piano nella Compagnia di Gesù e in tutta la Chiesa. Se, quindi, ha in sé un valore assoluto la pubblicazione dell'originale Disputa tucciana — il tema, quello della predestinazione, è dei più formidabili e ponderosi della teologia, motivo di ricerca e approfondimento incessante per uomini come Agostino, Lutero e Pascal, e in Tuccio vi sono alcuni spunti, quale l'autodeterminazione, di indubbia pregnanza speculativa —. non meno importante è la presentazione che il Giorgianni fa del pensiero e della vita del gesuita monfortese.
Questi, oggi quasi del tutto sconosciuto, potrebbe a giusta ragione esser definito «gloria e vanto della Chiesa messinese», se solo ci si impegnasse a ricostruirne il percorso esistenziale, ecclesiale e culturale; tanto ingiustificato e disdicevole ci appare l'oblio in cui è stato relegato, per quasi quattro secoli, sia dalla Chiesa di Messina che dalla stessa Compagnia dì Gesù.
Nato a Monforte S. Giorgio nel 1540, Stefano Tuccio entrò nel noviziato gesuita di Messina nel gennaio del 1558, iniziando lo studio di retorica, greco ed ebraico. Mandato nel Collegio di Palermo il 30 settembre dello stesso anno, tornò a Messina nell'estate del '61, dove insegnò nel Protocollegio della Compagnia per undici anni e fu ordinato prete nel 1566. Nel 1572, Tuccio si trasferì al Collegio Romano per approfondire gli studi teologici. Destinato in luogo di Roberto Bellarmino al Collegio di Milano come professore di teologia, insegnò Teologia dogmatica a Padova dal 1575 al 1577, anni in cui si andò consolidando la fama della sua eccezionale cultura. Nell'ottobre del 1579 Tuccio fu mandato ad insegnare al Collegio Romano, dove ebbe per collega il famoso Francesco Suarez. Il 2 maggio del 1580 firmò con Roberto Bellarmino e Giacomo Paez una celebre lettera al preposito generale della Compagnia in cui si difendeva l'esigenza, in tempi difficili che vedevano la Chiesa impegnata a «respingere» l'offensiva della Riforma, di non restringere il campo degli studi e, quindi, l'orizzonte culturale per i sacerdoti e i chierici del Seminario romano.
Più volte chiamato a predicare dinanzi al Papa, nell'aprile del 1585 Tuccio tenne a S. Pietro addirittura l'orazione funebre per la morte di Gregorio XIII. Famoso in tutta Europa (il nunzio in Polonia, a nome del re Stefano I, chiese il 4 aprile 1584 al cardinale Segretario di Stato pontificio la presenza «di qualche soggetto importante, et se non del Padre Belarmino, almeno del Padre Tuccio siciliano, che vien qui commendato assai»), tra gli incarichi particolarmente delicati a lui affidati in seno alla Compagnia fu quello di attendere alla compilazione della Ratio Studiorum insieme con lo spagnolo Azor , col francese Tyrie, col portoghese Gonzalves, con l'olandese Buys e col tedesco Ghuse.
Al Tuccio si rivolgevano spesso i cardinali della Curia romana nonché gli stessi pontefici Gregorio XIII, Sisto V e Clemente VIII. Più volte gli fu ordinato di partecipare alle riunioni dei cardinali e nel 1592 entrò a far parte della commissione esaminatrice dei vescovi.
Uomo di profondissima umiltà, al punto da trascurare la pubblicazione delle proprie opere (numerosi scritti storici, biblici e teologici, sei drammi latini composti a Messina tra il 1562 e il 1569 e cinque orazioni latine) Tuccio, come scrive il Giorgianni, «dall'intima familiarità coi papaveri della corte pontificia trasse soltanto molestia e fatica e non colse mai occasione per coltivare clientele e soddisfare ambizioni, per sottrarsi alla disciplina dell'Ordine e vendicarsi di qualche torto patito».
Nel 1592 — ormai stanco e avvilito dallo sperpero che Clemente VIII, da lui più volte riprovato, faceva dei beni della Chiesa, Stefano Tuccio lasciò Roma e si ritirò a Frascati, dove visse gli ultimi anni tormentato dal male — un tumore — che l'avrebbe ucciso. Al Collegio Romano tornò solo in prossimità della morte; sopraggiunta il 27 gennaio 1597. I suoi funerali avvennero con grande partecipazione di popolo, convinto della santità del gesuita monfortese, convinzione espressa pure dallo stesso Pontefice e dal preposto generale, Claudio Acquaviva, che così commentò la sua morte: «Abbiamo perso la perla più preziosa della Compagnia, il cui ricordo rimarrà indelebile nelle anime nostre».
Un ricordo, invece, che indelebile non pare esser stato, se son dovuti passare circa quattro secoli perché venisse ravvisato dal lavoro di Giorgianni. L'auspicio è che alle parole di fine Cinquecento seguano i fatti in quest'ultimo sprazzo di Novecento.
Gino Bartolone sulla Gazzetta del Sud