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Carmelo Trovato è stato una delle persone più positive vissute a Monforte della prima metà del secolo scorso.

Nato il 10 gennaio 1882, visse nel nostro paese dedicandosi alla professione di orologiaio. Aveva “casa e bottega” nella prima parte della salita di “Sotto le carceri”. Allo scoppio della prima guerra mondiale fu chiamato al fronte nonostante gli fosse da poco morta la moglie lasciando la figlia Angelina, nata nel maggio del 1915,  di pochi mesi. Combattè in Bosnia dove fu fatto prigioniero. Di quel periodo lasciò un ricordo commovente in un manoscritto che la nipote Caterina Visalli ancora conserva e di cui riportiamo due significativi frammenti.

 

 

Un altro grave lutto lo segnò durante il conflitto: la morte eroica sul Piave  del fratello Giorgio, le cui ossa riposano nel sacrario del Montello. A suo nome a Monforte è dedicata una via.

 Carmelo Trovato ricordava che il treno che lo portava al fronte aveva incrociato quello su cui viaggiava il fratello in direzione opposta: un commovente ultimo incontro.

Di intelligenza vivida, Carmelo Trovato, aveva imparato con facilità la musica durante il servizio militare tanto che questa era diventata la sua grande passione; componeva anche musica di cui i familiari conservano ancora gli spartiti. La sua generosità e il suo amore per il paese lo avevano poi portato a organizzare nell’immediato dopoguerra una banda musicale avviando alla musica tanti compaesani.

Di lui abbiamo un vivo ritratto nel racconto di Lillina Recupero Maugeri dal titolo “Concerto in Piazza” (potete leggerlo interamente qui sotto) contenuto nel volume Ballate siciliane (Sicilia Nuova Editrice 1975); il protagonista è il Maestro Trovato sotto il nome di Maestro Borato che è così descritto: Bassotto e tarchiato, gran bravuomo, dietro la grinta militaresca dei baffi nutriva uno sviscerato amore per la musica.

Per quanto riguarda lo stile con cui svolgeva il compito di direttore della banda, ecco cosa dice la Recupero: Non usava la bacchetta per dirigere la banda, come tutti i maestri, bensì il suo bastone. La musica è musica, e il maestro sapeva imbrigliarla impugnando il bastone a manico ricurvo nella larga voluta del gesto. Aveva sempre rifiutato la tradizionale bacchetta per il suo celebre bastone, non di rado dimenato minacciosamente sulle teste dei musicanti, mortificati ma consapevoli di meritare ogni tipo di punizione. La sua abnegazione, dice ancora la Recupero, non si poteva in alcun modo ignorare per lo sfiatare di strumenti o grancasse fuori tempo che condiva la cena ai Monfortesi.

Angela TrovatoTrovato aveva un carattere franco, odiava il pettegolezzo unito alla cattiveria che spesso circola nei piccoli centri. Per testimoniare questa sua condanna, con intento educativo, aveva esposto nella vetrina del suo negozio una medaglia su cui si leggeva a grandi caratteri la frase “Fatevi i c… vostri”, e l’aveva saldata con una piccola asta alla schiena di una lamina raffigurante una pecorella. I bambini che passavano per strada si fermavano divertiti per leggere e commentare questa sua produzione. E quando erano infastiditi da commenti malevoli dicevano: Ricordati di quanto si legge sopra la pecora nella vetrina del Maestro Trovato

Da persona integerrima non sopportava abusi e ingiustizie e ripeteva di fronte a comportamenti negativi “Monforte puzza sette metri sotto ghiaccio”. Detto che anche oggi molti giovani ripetono.

L’episodio narrato da Lillina Recupero nel racconto “Concerto in Piazza” avvenne in occasione della prima festa di San Giorgio del dopoguerra. Esso mette in luce l’integrità, la correttezza e la ricerca della giustizia del Maestro Trovato: quando nell’esercizio delle sue funzioni di direttore della banda municipale si trovò coinvolto in un episodio spiacevole, pur avendo dimostrato prontezza di spirito e capacità di risolvere la situazione, divenne capro espiatorio e fu rimosso dall’Amministrazione comunale dall’incarico che ricopriva. Per manifestare, in modo pacifico ma efficace, il suo sdegno per l’ingiustizia subita, espose nella vetrina del suo negozio un cartello con la scritta “Fate tutti schifo” con tanto di marca da bollo debitamente annullata: comportamento originale e in linea col suo carattere.

Carmelo Trovato fu buon marito e buon padre per l’amata figlia Angelina, nota e apprezzata a Monforte per la sua abilità di ricamatrice e catechista amata da generazioni di bimbi monfortesi (nella foto Trovato accompagna all’altare la figlia Angelina).

Carmelo Trovato morì a Monforte l'8 novembre 1962. In questi anni in cui si commemorano le gesta eroiche, i dolori, le sofferenze del popolo legati alle vicende della Prima Guerra Mondiale , la sua memoria, come quella del fratello Giorgio, deve essere fatta presente e onorata specie dalle giovani generazioni.

Guglielmo Scoglio

 

 

 

CONCERTO IN PIAZZA

Quando a Monforte non si sentirono più fragori di bombe e di mitraglie, dileguatesi anche le ombre dei tedeschi, inglesi, marocchini e d'ogni altra sorta di stranieri, tutti rivolsero un riconoscente pensiero a San Giorgio che, durante la triste calamità della guerra, aveva fatto bene il suo dovere di protettore: le case quasi tutte in piedi, i campi fermi ai soliti confini. Con un gran sospiro di sollievo al colmo del petto, ognuno si preparò a glorificarlo e festeggiarlo, anche perché, nello stesso tempo, avrebbe glorificato e festeggiato se stesso per lo scampato pericolo. Nel limbo del dopoguerra tornava gradito ritrovarsi nelle antiche usanze di sapore casalingo, così riapparirono i flavioli (i biondini), frittelle di farina uova e latte, che riempirono d'aromi soavi la vigilia della festa.

Altra cara consuetudine, durante le festività di Monforte, era la presenza irrinunciabile di due personaggi: Precipizio, l'uomo dei fuochi, e il «maestro» Borato, di professione droghiere, e saltuariamente direttore ed i-struttore della banda paesana. Ogni loro mossa era spiata, commentata in segreto : i paesani gongolavano nel vedere Precipizio tornare, la sera, dalla stalla, dove manipolava girandole e casse infernali, più allampanato del solito e con due occhi straniti, come se avessero sempre i fuochi davanti.

Ma, al centro della vicenda festiva era il «maestro», la cui abnegazione non si poteva in alcun modo ignorare per lo sfiatare di strumenti o grancasse fuori tempo che condiva la cena ai Monfortesi. Bassotto e tarchiato, gran bravuomo, dietro la grinta militaresca dei baffi nutriva uno sviscerato amore per la musica. Preso di mira dai buontemponi, il peggio che potesse capitargli era che qualche bàbbèo, dietro istigazione d anonimi, gli apparisse in bottega per chiedergli se era vero che fosse il «fi» l'ottava nota. Il maestro insorgeva allora con un «Sacrr» talmente ferino da far fuggire atterrito il poveretto, il quale si guardava bene dal tornare in negozio se non per caramelle o spezie diverse.

La musica è musica, e il maestro sapeva imbrigliarla impugnando il bastone a manico ricurvo nella larga voluta del gesto. Aveva sempre rifiutato la tradizionale bacchetta per il suo celebre bastone, non di rado dimenato minacciosamente sulle teste dei musicanti, mortificati ma consapevoli di meritare ogni tipo di punizione.

Al gran giorno del Santo l'aria seppe nuovamente di voci variopinte, di cose ritrovate, di miracolo: la processione giunse in piazza con l'odore dell'incenso, le verginelle candide e i chierichetti disordinati e distratti.

Rimesso il Santo al suo posto, si accesero finalmente le luci: Michele, l'elettricista, aveva scovato una grossa lampada molto adatta ad illuminare l'intera piazza che poteva somigliare, senza sforzo d'immaginazione, al cortile d'un penitenziario (e per alcuni lo era veramente) se non ci fosse stata la chiesa col campanile e l'orologio che andava con un meridiano sbagliato. Altre tre lampade furono poste sulla porta maggiore della chiesa.

Anche Baracchetta aveva illuminato il suo bar, sicché, considerato il palco imbandierato, con le assi nascoste da palme, edera e gerani, e i musicanti in divisa, gli strumenti tirati a lucido con la forza rabbiosa della sopravvivenza, tutto era uno spettacolo bellissimo; specie se paragonato alle tenebre dell'oscuramento, poteva simboleggiare la rivalsa sull'avverso destino della guerra.

I paesani, sulla via di disintossicarsi di tante penitenze, riesumati gli abiti belli, si prepararono a godersi il concerto, nella maggior parte trascinandosi dietro le sedie di casa fino alla piazza, e disponendole intorno al palco secondo una precedenza naturale. Troneggiavano per prime quelle del Commendatore Pantò e famiglia; allo stesso parallelo le sedie dei marchesi Pontedoro, dei Trombetta, dei Maccherone, tutti parenti, lontani o vicini secondo le occasioni, le sedie del farmacista e del medico condotto Ciardello, la sedia dell'anziano e traballante «Signorino», che giunse a braccio dei due ultimi esemplari di servi esistenti in paese. Dietro presero posto i commercianti e i borghesi comuni ; in ultimo, gli operai e i contadini, un po' alla rinfusa. I bambini frignavano, le madri si lamentavano: — Non si vede...

Qualcuno rispondeva: — Sentire devi, non vedere... Un altro, riferendosi agli occupanti delle sedie in prima fila: — Questo è il paese degli «spillacchi»; ci sono stati e ci saranno fino a quando le timpe del Calvario non si decideranno a piombare sulle loro case, — e indicava le rocce che stavano da sempre pericolanti sul paese. — Gesù misericordia... Gesù misericordia — imploravano le donne; — zitti, zitti, che il Signore ci sente ! Gli «spillacchi» erano i benestanti, e la qualificazione derivava dall'antica abitudine dei potenti di spillare, il più possibile, il sangue ai poveri.

Intanto, tra sorrisi e sussieghi, tutti, avendo preso posto, stettero in attesa del concerto, il primo dopo lunghi anni di inutili disarmonie. Già si pregustavano le tradizionali marcette, le sinfonie della Norma e del Rigoletto, col grande pot-pourri delle canzoni napoletane come finalissime

Però lo spettacolo di pace, di concordia raggiunta, di bontà manifesta, ebbe vita fino a che il maestro Borato, in una lunga suspence, non levò il bastone nell'avvìo alla prima battuta. A questo punto, una voce maligna, forse quella del demonio, lacerò il silenzio gridando: — L'Inno!... Vogliamo l'Inno!

Il primo soffio della Norma si spense flebilmente, mentre un'altra voce, stavolta chiaramente individuata per quella di Santo Miciacio, gridò, con la disperazione d'un risuscitato che sta per rimorire: — Giovinezza! Giovinezza !

Il bastone di Borato cadde tramortito mentre il tumulto allignava come peste. Quasi ferito da uno squarcio

— La marciareale ! ! — stridette.

La voce d'un orco tra la folla tuonò: — Bandiera rossa, o ...sangue della miseria... — e seguì una minaccia confusa. Qualche slancio sonoro dell'orchestra si riversò, esangue, dal palco. — L'Inno!... — si urlava dappertutto, — l'Inno !

Dopo un fugace pensamento, il maestro, sudato, smarrito, affidò l'ultima speranza di concordia alle note del-l'«Ave Maria» di Gounod.

Ma la significativa soluzione fu presto sopraffatta dal generale eccitamento, dai puntigli, dagli alterchi, fitti e improvvisi. Nel clamore il Trombetta, saltato sul palco della musica, sbraitava: — Questa è propaganda!... abbasso la propaganda! I due fratelli Maccherone urlavano: — Viva gli operai! Nostro padre, il sindaco vecchio, fu dalla parte degli operai sin dalla prima guerra mondiale. Trombetta si scalmanava : — Maccherone, vostro padre era un grosso proprietario! Dall'urlìo divenuto tumultuoso emergevano le parole: «Ladri! Musica! Finiamola con le mangiatoie fasciste! Bolscevichi! Viva il Re! Viva San Giorgio!»

Finché una mano abilissima, senza dubbio ancora quella del demonio, non centrò, con una pietrata, la più grossa lampada della luminaria, facendo piombare nel buio la piazza, con tutto ciò che conteneva di bello e di brutto.

Nel silenzio — dato che non c'è gusto di litigare al buio — recuperato il recuperabile, tutti si dileguarono in fretta, senza musica, e senza fuochi, perché, dall'alto del Calvario, Precipizio invano attendeva che le lampade del sagrato occhieggiassero per tre volte, come convenuto.

Ma lo spiacevole accaduto non poteva passare inosservato: l'Amministrazione comunale sentì il bisogno di ricordare la propria autorità e di ristabilire l'equilibrio cittadino, sia pure per breve tempo, sconvolto. Così, riunitasi in fretta e furia la Giunta in seduta urgente e straordinaria, fu proposto, deliberato, redatto e firmato all'unanimità il provvedimento secondo il quale, nel ringraziarlo del lungo e lodevole servizio prestato, si rimuoveva il signor Borato dalla carica di direttore della banda municipale. Questa decisione, che scaricava i malumori sul non colpevole, passò quasi del tutto inosservata. I malcontenti, essendo i più avversati perché quasi sempre dalla parte giusta, chinarono la fronte; e così nulla accadde di notevole. Tranne l'apparizione d'un cartello nella vetrina del «maestro», che, in bei caratteri gotici, portava la scritta: «Fate tutti schifo».

Vi stette per lunghi anni, tra angioletti di cera e barattoli d'ogni sorta; in basso, nell'angolo destro, la marca da bollo, debitamente annullata.